Ettore Perrella: Seminari I-IX (1979-1988)
Introduzione. Dall’archivio al sito
- L’idea di rendere accessibili, nel sito dell’Accademia per la Formazione, le trascrizioni dei miei seminari, tenuti a Padova fra il 1979 e il 1988, mi è stata suggerita da un’amica e collaboratrice di lunga data, quando mi aveva detto che il mio Seminario II, L’inconscio e il tempo (1980-1981), le era sempre stato molto utile nel suo lavoro, nel campo della psicanalisi, e non solo.
Di quel mio seminario aveva sicuramente un ricordo personale, o forse mediato da trascrizioni mai riviste e mai pubblicate. Infatti, dei miei due primi seminari (1979-1981), come dell’ultimo (1987-1988), esisteva, solo nei miei scaffali, dei primi due una trascrizione dattiloscritta, e dell’ultimo una nel mio computer, già trasformata in file. Ma queste trascrizioni non erano mai state riviste né rese pubbliche, come invece era accaduto ai miei seminari dal III, Il mito analitico del desiderio (1981-1982), all’VIII, La significazione e il senso. Su Mozart (1986-1987), che invece erano stati tutti rivisti e resi disponibili, stampati, anche se destinati solo ad un pubblico ristretto.
Ho quindi ritenuto che fosse utile rivedere i tre seminari “mancanti” ed aggiungerli ad una ripubblicazione web dei sei seminari stampati, ma ormai da decenni quasi impossibili da trovare.
Naturalmente occorrerà del tempo, soprattutto per trascrivere i primi due seminari, poi per rivederli. Per quelli già editi, invece, per riprodurli basta ricorrere ad uno scanner. I lettori del sito dell’Accademia per la Formazione troveranno, accluso a questa introduzione, l’indice complessivo di tutti i miei nove seminari d’allora, e nell’indice saranno man mano segnalati tutti quelli da subito disponibili nel sito. - Ora, perché ho pensato subito che ripubblicare l’insieme dei miei seminari di quarant’anni fa fosse utile? A questa domanda credo che sia bene dare una risposta, che valga anche come un’introduzione.
M’è parso che renderli nuovamente accessibili – nonostante tutto ciò che è accaduto, in quattro decenni, nel campo della psicanalisi (e non solo) – soprattutto per due motivi.
Il primo è che tutto ciò che sono venuto elaborando, nel campo della mia ricerca, è sempre stato abbozzato a voce in quei miei seminari d’allora, prima d’essere ripreso nei miei libri. Anche le mie riflessioni politiche (in senso etimologico), fatte nell’ultimo dei miei seminari d’allora, contengono in nuce delle idee che avrei ripreso solo dopo decenni, nel mio libro Sovranità, libertà e partecipazione, pubblicato nel 2022 da Polimnia. Perciò, come mi suggeriva l’amica e collaboratrice alla quale mi riferivo prima, la lettura della trascrizione della prima esposizione in vivo di quelli che posso pur chiamare i “miei” pensieri (sebbene con l’uso delle virgolette) può essere effettivamente utile a coloro che cercano d’utilizzare i miei libri per raccapezzarsi, prima di tutto nella loro formazione come psicanalisti, in secondo luogo nel mondo in cui viviamo (e che certo assomiglia ben poco a quello che, negli anni Ottanta del secolo scorso, ci si sarebbe potuto immaginare).
A questo proposito, mi limito a segnalare una coincidenza per nulla fortuita: nel 1989 – l’anno successivo al mio ultimo seminario, non a caso intitolato La città. Etica e psicanalisi (1987-1988), sono accaduti due eventi, che è certamente difficile mettere sullo stesso piano (se non per chi operi nel campo della ricerca psicanalitica): è stata approvata in Italia la legge 56 del 1989, che istituiva la categoria professionale degli psicoterapeuti, nella quale quella degli psicanalisti è stata indebitamente risucchiata; ed è caduto il muro di Berlino. È facile sorprendersi di questo accostamento, che però non mi pare affatto casuale, dal momento che l’inserimento della psicanalisi fra le professioni sanitarie e la logica informatizzata che, dagli anni Novanta, domina tutti i campi della vita – con effetti talvolta positivi, ma che generalmente riducono in ogni campo il primato dell’esperienza, in nome dell’informazione generalizzante – obbediscono alla stessa logica, che è tornata a concentrare i privilegi nelle mani dei privilegiati, a impoverire tutti gli altri (al limite, con un ritorno, camuffato male, allo schiavismo) e, last but not least, a trasformare sempre più chiaramente la guerra fredda d’una volta in una terza guerra mondiale spezzettata, ma non meno sanguinaria. Tutto ciò ha qualcosa a che vedere con la psicanalisi? Sicuramente sì: non solo dal punto di vista teorico, nel quale la prevalenza etica delle posizioni che furono prima di Freud e dopo di Lacan viene sempre più ridotto alle pseudocompetenze sanitarie; ma soprattutto nel campo dell’esperienza viva e quotidiana della sua pratica, sulla quale le nuove condizioni socio-economiche incidono sempre più profondamente, anche nella rideterminazione delle situazioni cliniche. - Tuttavia il primo motivo dell’utilità di questa ripubblicazione è secondario, perché invece
quello primario è il secondo; di fatti la lettura della trascrizione dei miei seminari d’allora mette in questione anche la relazione fra la riflessione teorica, nel campo della psicanalisi, e le contingenze storiche in cui essa si svolge. Quando tenevo quei seminari, la psicanalisi era una professione non regolamentata, ed era quindi una libera professione. Essa, oggi, corre il rischio di perdere per sempre la propria libertà, quindi di scomparire.
Questo privilegio della libertà – ma la libertà può essere un privilegio, se la democrazia è
qualcosa di più d’una facciata di cartone? – è stato perso dagli psicanalisti quando la maggior parte di loro ha accettato, o addirittura voluto, che essa fosse riconosciuta fra le professioni sanitarie.
Perché tanti di loro hanno accettato volonterosamente questo giogo? Quale masochismo – primario o secondario – influiva su tanti, a questo punto sedicenti, “fedelissimi allievi” di Freud o di Lacan?
La risposta è molto facile. Quando si è liberi, si deve pagare il prezzo della libertà, che è per tutti l’angoscia. Non fosse che quella di decidere, e quindi di dover rispondere delle proprie decisioni.
Paradossalmente, proprio questo è il motivo per cui la Massepsychologie ha sempre implicato la rinuncia pulsionale, come Freud aveva dimostrato fin dagli anni Venti, perché rinunciare ai propri desideri fa diminuire l’angoscia, e l’angoscia sembra addirittura scomparire, quando facciamo quello che tutti gli altri si aspettano da noi.
Ma la psicanalisi è compatibile con il conformismo? La mia risposta a questa domanda è sempre stata negativa. Chi, del resto, farebbe lo psicanalista, se volesse fare esattamente quello che tutti gli altri s’aspettano da lui? - Quindi veniamo al modo in cui “io” ho fatto lo psicanalista. Scrivo “io” fra virgolette – come poco fa ho messo fra virgolette i “miei” pensieri – per il semplice motivo che non si fa lo psicanalista come Io: l’Io non fa parte di quello che si fa come analista, dal momento che l’atto analitico è determinato dalla posizione che l’analizzante assegna, nel transfert, al suo psicanalista, come “soggetto supposto sapere”. Ed il sapere supposto non ha nessuna relazione con il sapere dell’Io.
Tuttavia – è qui la difficoltà – uno psicanalista è tenuto a saperne, ed anche – per come la vedo io (ma sono in buona compagnia) – a rispondere di quel che sa (o che non sa) con il proprio insegnamento.
Il fatto è che una cosa è sicura: la psicanalisi è un’attività che non si può praticare che da soli. Proprio per questo è del tutto inevitabile risponderne insegnando a degli allievi. In effetti la psicanalisi è un’attività che non può rinunciare a trasmettersi, perché consiste proprio in questa trasmissione.
Ed è proprio qui che l’Io ritorna fuori: nella sua solitudine, anzi, direi, nella sua Hilflosigkeit. Per mettere le cose in chiaro, dirò che si pensa – quando accade – solo da soli. Mentre s’insegna necessariamente a qualcuno. E lo si fa in una cornice che non è mai libera, perché, anche quando non s’insegna a scuola o all’università, l’insegnamento ha sempre qualche relazione con l’istituzione, perché ha sempre qualche relazione con i pregiudizi degli allievi. Anche quando s’insegna psicanalisi. La relazione fra l’insegnamento e l’istituzione è del tutto evidente, per esempio, nella vicenda della psicanalisi in Francia, dove Lacan fondò l’École freudienne de Paris proprio per continuare ad insegnare. Quindi, quando, nel lontano 1979, iniziai il mio seminario, già mi mettevo in relazione con un’istituzione, che solo dopo il 1988 sarebbe diventata l’Accademia per la Formazione, e che invece, prima, aveva assunto varie configurazioni, tutte transitorie, perché non avevano nessuna relazione – ed a dire il vero nemmeno nessuna compatibilità – con quello che io insegnavo. E stavolta, come si vede, lo scrivo in corsivo, e senza virgolette. Ma appunto, allora, a me che cosa stava a cuore d’insegnare?
- Naturalmente la psicanalisi, sarebbe facile rispondere. Ma la psicanalisi non s’insegna come la matematica o la grammatica. La psicanalisi non è una dottrina, perché, tutta le volte che viene ridotta ad esserlo, si perde.
Quindi la psicanalisi, come la filosofia, s’insegna solo mostrando – e sempre con dei limiti
precisi – come si trova quello che si cerca: perché, con buona pace di Picasso – ed anche di Lacan, che l’ha citato – non si trova mai niente, quando non si cerca (forse senza saperlo). Può capitare, beninteso, che si trovi anche nella dottrina, o per lo meno nei testi degli autori che maggiormente, secondo l’insegnante, si sono avvicinati alla verità dell’esperienza di cui si tratta nell’insegnamento. Ma appunto: la verità dell’esperienza non sta negli scritti di nessuno. Nemmeno negli scritti di Freud e di Lacan. Sta nella loro esperienza, che è anche la nostra. Quindi la verità della psicanalisi non ha nessuna sussistenza: se non nell’esperienza, appunto, dell’insegnamento, che, di quell’esperienza, che è la psicanalisi, deve testimoniare. E solo in questo modo può tentare di trasmetterla. - A questo devo aggiungere che il mio primo approccio, ancora adolescenziale, alla psicanalisi, avvenne grazie alla lettura di Marcuse, che m’addestrò molto bene a trovare in Freud, Marx e Nietzsche i tre punti d’orientamento o d’orizzonte di quello che pensavo e che cercavo.
È come dire che, per me, la psicanalisi ebbe sempre molto poco a che fare con la terapia: tant’è vero che, quando m’iscrissi a medicina, con l’idea che “da grande” avrei potuto “fare lo psicanalista”, mandai subito a quel paese anche la psicanalisi, perché la medicina non c’entrava niente con quello che cercavo. E fu solo più tardi, attraverso la filosofia, e grazie alla lettura di Lacan, che ritrovai la bussola che mi ricondusse a Freud.
Tutto questo s’intravvede alla lontana anche nei miei primi seminari degli anni Ottanta. Certo, insegnavo psicanalisi. Ma la psicanalisi che insegnavo – e che m’interessava – era sempre posta in relazione con la rivoluzione marxiana e con la Wille zur Macht di Nietzsche. E tutti lo capivano! E perciò devo dire che, fra i miei colleghi analisti, mi fu assegnato subito il posto dell’eretico. Anche quando quegli analisti, che avevano iniziato a formarsi proprio nei miei seminari, decisero poi di prendere il volo – o di precipitare – verso i settori più rassicuranti della professione. - Per tutti questi motivi, man mano che facevo i miei seminari d’allora, e che passava il tempo,
la mia esperienza stava sempre più stretta nella cornice dell’istituzione, magari solo eventuale, nella quale si poteva tentare veramente una qualche trasmissione della psicanalisi.
In fondo, quel che mi premeva trasmettere non era una dottrina – insomma nessun “perrellismo”, nemmeno eventuale –, ma un modo d’interrogare l’esperienza: quell’esperienza che ciascun analista può e deve fare soltanto nella propria solitudine.
Quel che mi premeva trasmettere era un modo di tollerare insieme la propria solitudine. Solo se riesce a fare questo, un’istituzione può dirsi psicanalitica. E tutti noi analisti sappiamo quanto sia difficile riuscirci Oggi, a cose fatte, rileggendo à rebours i miei seminari d’allora, devo dire che, nonostante mille intralci che la mia necessitò d’appoggiarmi a delle fonti mi dava, posso dire che credo d’essere riuscito a lasciare una traccia di questa mia ricerca iniziale, in questi nove seminari. Quanto ai miei libri, alcuni dei quali sono stati scritti solo molti anni dopo, non posso non riconoscere che sono stati sempre gli sviluppi, a volte molto ritardati, di alcune idee che oscuramente, già s’elaboravano allora, nel mio pensiero e nella mia parola.
- Un’ultima parola, prima di concludere. Questi seminari sono stati pronunciati da me a voce.
Le trascrizioni che sono state pubblicate – sebbene sempre dopo una mia sommaria revisione – erano state fatte da persone diverse, con criteri diversi. Io stesso devo ammettere che, qualche volta, rileggendo, a tanti anni di distanza, questi scritti-che-non-ho-mai-scritto, faccio molta fatica a ricostruire il mio pensiero, perché non sempre quello che dicevo è stato tra-scritto da qualcuno che comprendesse quello che dicevo. Del resto, come potrei rimproverarlo a qualcuno, visto che io stesso, molto spesso, non mi rendevo conto, mentre parlavo, di dove sarebbe giunto, dopo, il mio pensiero?
Per quanto, quindi, non possa che assumermi la responsabilità di quello che dicevo, non mi
posso assumere totalmente la responsabilità dei testi pubblicati, che sono stati scritti solo in quella scrittura fuggevole e caduca che è la voce.
Ringrazio comunque coloro che hanno collaborato a quest’impresa, anche se oggi, tanti anni dopo, non saprei nemmeno ricordare tutti i loro nomi.
Luglio 2024
Indice
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