Verso una politica della formazione di Ettore Perrella
Il nuovo Presidente del Consiglio Mario Draghi ha fino ad ora pronunciato solo un discorso programmatico, ma è bastato per lasciar pensare che la difficile situazione in cui si trova l’Italia attualmente abbia trovato in lui una guida politica che, invece d’inseguire i media, possa mettere le mani ai problemi più urgenti e cercare di risolverli.
Mi limito a segnalare che, nel non lunghissimo discorso, ricorre ben otto volte la parola “formazione”, non solo a proposito delle scuole e delle università, ma anche del lavoro. Già questo basta a chiarire che Draghi, prima d’essere un banchiere, è un politico, almeno nel senso più nobile che può avere questa parola. Non a caso il tema della formazione, fin dalla Repubblica di Platone, è sempre stato al cuore della politica. A differenza degli esseri umani, lo Stato non muore, e perciò la formazione dei nuovi cittadini è sempre politicamente centrale e determinante.
In Italia la scuola ha avuto, negli ultimi decenni, una lunga serie di riforme, che però non hanno mai comportato una seria riflessione sugli scopi della formazione. Oggi questo scopo è diventato urgente, perché le nuove tecnologie richiedono delle competenze specifiche non solo dal punto di vista delle professioni, ma anche da quello della produzione industriale e dell’esportazione.
In Italia i problemi suscitati dalla pandemia si sono aggiunti ad altri economici e politici già esistenti da decenni. Non è un caso che Draghi abbia citato Cavour e la cooperazione che, alla fine della seconda guerra mondiale, fu necessaria fra partiti schierati sulle sponde opposte delle divaricazioni ideologiche. È come se avesse detto – senza dirlo esplicitamente, ma tutti lo hanno capito – che la situazione è oggi gravissima, e richiede una vera rifondazione, non solo del governo, ma della stessa vita politica. Ed è appunto in questo contesto che il tema della formazione acquista tutta la sua rilevanza.
Uno dei compiti più importanti dello Stato è di fatto quello di assicurare il rinnovamento della classe dirigente. Proprio per questo le varie riforme della scuole che sono state proposte negli ultimi cinquant’anni erano insoddisfacenti: esse tendevano ad allargare alla massa l’educazione scolastica, ma non a creare una nuova classe dirigente. Perciò esse hanno di solito abbassato le pretese dell’istruzione pubblica, mentre coloro che si specializzavano nei migliori Istituti universitari italiani spesso si spostavano all’estero, dove trovavo migliori possibilità lavorative ed economiche.
Si pone a questo punto una domanda: c’è una relazione fra l’abbassamento delle pretese formative della scuola e dell’università ed il modificarsi dei partiti politici, negli stessi decenni?
I grandi uomini politici italiani del passato – De Gasperi, Croce, Parri, Einaudi, Nenni, Togliatti, per fare solo i nomi più autorevoli – si erano formati prima e durante gli anni della dittatura fascista. I partiti, quando si ritrovarono a costruire la Costituzione della Repubblica, erano delle strutture dirette da una classe di politici competenti, alle quali la resistenza aveva dato una base popolare.
La politica italiana della prima Repubblica era però vincolata ad una situazione internazionale che escludeva il Partito Comunista dalla possibilità di governare. Questo costrinse la Democrazia Cristiana ed il Partito Socialista a governare senza confrontarsi in effetti con un’opposizione. Il tentativo di allargare al PCI la maggioranza produsse invece il terrorismo. Nel frattempo i partiti di centrosinistra persero ogni effettivo rispetto per le loro basi ideologiche e finirono per governare con modalità illegali, che furono smascherate, dopo la fine della guerra fredda, dall’inchiesta “Mani pulite”.
Il risultato fu che, mentre il Partito Comunista, in seguito alla fine della guerra fredda, dovette rinunciare alla sua impostazione marxista, i partiti di centro furono sostituiti da nuovi partiti populisti e tendenzialmente di destra. Fu cancellato del tutto ogni riferimento ideologico, ed i partiti furono costruiti in base alla popolarità di leader che non avevano mai avuto una formazione politica nei vecchi partiti.
Forse semplifichiamo troppo, ma l’ultimo parlamento italiano ha costituito il trionfo del populismo, vale a dire del divorzio fra i partiti e l’ideologia politica. Per questo ad un governo Conte 1 costituito da Movimento 5 Stelle e Lega è seguito un governo Conte 2, costituito da Movimento 5 Stelle e Partito Democratico, più altri partiti di sinistra.
In questa situazione di estremo allontanamento della politica italiana da ogni dignità ideologica è scoppiata la pandemia. Nei primi mesi il Governo ha retto l’urto. Ma quando è intervenuta la necessità di confrontarsi con il finanziamento europeo tutti i partiti hanno dimostrato di non essere capaci di sostenere il peso di questa responsabilità. In questo contesto il Presidente della Repubblica ha affidato a Mario Draghi l’incarico di formare un nuovo Governo.
Miracolo: tutti i partiti (eccetto Fratelli d’Italia e pochi scontenti di sinistra e del M5S) sono confluiti nel nuovo Governo. Il miracolo continuerà? Draghi sarà davvero in grado di governare?
Qui ritorniamo a quanto dicevamo all’inizio. Dinanzi alla pandemia e ad una crisi socioeconomica che potrebbe divenire drammatica, non si tratta solo d’amministrare lo Stato; si tratta di rifondare la politica italiana. Come? Mettendo al centro della politica il tema della formazione. Ma il tema della formazione, per i partiti politici, si risolve nella loro capacità di rifondarsi, smettendo d’inseguire i meccanismi ciechi dell’informazione, per porre al contro della propria attività delle posizioni politiche chiare.
Non si tratta quindi solo di rilanciare la scuola e l’università. Si tratta di ripensare la politica. Vale a dire di farla tornare ad affrontare il compito dell’amministrazione reale degli interessi dei cittadini e dello Stato.