La psicanalisi oltre la pandemia Presentazione del libro di E. Perrella
Presentazione del libro di Ettore Perrella “La psicanalisi oltre la pandemia” (Poiesis Editrice, Alberobello 2020) del 20 novembre 2020. Trascrizione a cura di Paola Armenti, Marta Bretini, Igor Danzini, Erika D’Incau e Vito Mingolla.
Piero Feliciotti
È con molto piacere che introduco le mie note a questo bel libro, che consiglio vivamente a tutti di leggere, anche agli studenti che sono collegati con noi oggi. Lo consiglio perché il testo che propone Ettore Perrella, prendendo spunto dalla pandemia del Covid-19, realizza un test per tutto il sistema sociale. Un crash test, diremmo col linguaggio bancario. La pandemia è stata infatti il banco di prova per verificare i princìpi su cui è fondata la nostra società.
Il Covid-19 ha provocato – ahimè – molti problemi, ma non è l’origine di tutti quelli con i quali abbiamo avuto a che fare negli ultimi anni. Invece è l’elemento che ha rivelato i problemi sociali che finora erano rimasti nascosti: problemi sociali – molto seri e gravi – che, come dice Perrella nel suo libro, sono connessi al fatto che le promesse fatte sin dal principio dal neoliberismo sono si sono dimostrate assolutamente fallaci. Il Covid-19 è servito pertanto a rivelare le conseguenze di cinquant’anni di politiche neoliberiste: un aumento disastroso delle disuguaglianze e un impoverimento della classe media; aspetti, questi, che coinvolgono le basi della democrazia e della nostra cultura occidentale.
Il libro, in secondo luogo, è importante perché l’autore, dal punto di vista dello psicanalista, spazia in un campo che coinvolge la sociologia, la politica, l’economia e l’assetto sociale. Nella particolare congiuntura critica, per la nostra democrazia e per la stessa libertà dei valori liberali, anche la psicanalisi è stata messa alla prova. Gli psicanalisti si sono arrangiati e hanno dovuto cambiare il setting tradizionale, affidandosi al web. Il libro di Ettore Perrella è esattamente un resoconto di questa messa alla prova, ma mette anche in luce l’organizzazione che la psicanalisi si è data dai tempi di Freud fino ai tempi nostri. È quello che ritroviamo, ad esempio, nel primo capitolo del libro, La grande cesura, in cui l’autore dimostra, attraverso delle scansioni storiche, come la psicanalisi sia fortemente intrecciata con tutti gli elementi della nostra società – politici, giuridici ed economici – e quanto questi intrecci abbiano influenzato il modo in cui le società psicanalitiche si sono via via organizzate. È una sorta di bilancio sullo stato di salute della psicanalisi e sulla sua articolazione con la psicoterapia e con le leggi dello Stato. Questo bilancio, però, non è fatto dall’interno di un movimento o di uno schieramento della psicanalisi, cioè non è presentato dal punto di vista di una scuola di psicanalisi. In questo periodo molte scuole di psicanalisi hanno discusso sulle modificazioni che la pandemia ha imposto alla loro pratica e molti si sono interrogati sul suo futuro, lanciando un appello in difesa della psicanalisi che è a rischio di scomparsa. Questo libro, pur accogliendo la stessa preoccupazione, ribalta la prospettiva, e proietta immediatamente la psicanalisi nell’ambito sociale: la psicanalisi è malata perché è la nostra società che è malata. Cito: “la psicanalisi deve riconoscere di essere una parte strutturalmente essenziale della cultura liberale”1; Perrella sottolinea così che la psicanalisi non è affatto politicamente neutra. Egli ricorda inoltre che, per moltissimo tempo, gli psicanalisti si sono ritenuti – ahimè – al di sopra di molti valori sociali; come se l’essere in contatto con l’inconscio – che da questo punto di vista è un po’ feticizzato – li esentasse dall’interessarsi e dal prendere posizione rispetto agli aspetti politici. Come scrive ancora Perrella: “È un delirio politico credere che qualunque partito governi, allora non cambia niente”2. Il destino della psicanalisi è fortemente incentrato sul futuro della nostra democrazia liberale; infatti – prosegue l’autore – “la psicanalisi non potrà continuare ad esistere se non cooperando attivamente alla funzione civilizzatrice e innovatrice della formazione, che non può esistere se non è radicalmente liberale e democratica”3.
Ora, la psicanalisi in quanto tale, e cito ancora, “non ha nulla da dire sui problemi politico-sociali, se non in quanto è essa stessa parte costitutiva di una interrogazione etica generale, che in nulla è subordinata alla psicopatologia”4. È una chiamata di responsabilità per gli psicanalisti che, spesso, fanno finta di non accorgersi dell’importanza dell’intreccio fra politica, economia e psicanalisi, mentre questo sarebbe proprio il loro mestiere. Essi si considerano operatori sanitari o, comunque, al riparo da queste questioni, visto che si occupano delle nevrosi o della psicopatologia. In realtà, dice Perrella, anche con parole molto dure, “questo è solo l’effetto di una viltà sociale della quale stiamo tutti pagando le spese”5.
Dunque, il libro è la testimonianza del passaggio da un ambito che è dell’analitico, dell’inconscio, del privato o del segreto, che riguarda ciò che succede nello studio dello psicanalista, ad un ambito che è invece dell’impegno politico e sociale degli psicanalisti. Un’ulteriore testimonianza di ciò è data proprio dalla pubblicazione di questo libro, e in questo anche la Casa editrice sta svolgendo un grosso compito, sul piano dell’impegno civile.
Le tracce di questo passaggio sono contenute nel libro e partono da uno spunto che Ettore Perrella, come psicanalista, si trova a cogliere quando comincia a sentire i suoi pazienti, che arrivano in seduta da lui, ad esempio, indossando la mascherina e dicendo: “Guardi ho la mascherina, ma me la metto per proteggere lei”6. Oppure un altro paziente, arrivando in seduta, afferma di preferire le sedute a distanza, così da non correre “il rischio che lei mi mangi”7. Perrella scrive che dopo questa affermazione avrebbe potuto interpretare questi movimenti inconsci come un atto di aggressione verso di lui; sarebbe stato legittimo in altre condizioni. Ma in quella specifica situazione non se l’è sentita, perché il pericolo non solo riguardava anche lui, ma era inoltre assolutamente vero e reale. Questa situazione, coinvolgendo la stessa angoscia di fronte alla morte, non poteva essere affrontata con un gioco di prestigio fatto con le parole, cioè con un’interpretazione infinita, che consegnasse all’analista un potere sovrumano o il potere, comunque, di cavarsela senza mettersi in questione. Qui, pandemia o meno, c’è un limite della psicanalisi e Perrella sa coglierlo al volo e trarne un insegnamento.
Ad essere in gioco, infatti, c’era il fatto che entrambi, paziente e analista, si scoprivano mortali. L’impatto con il reale coinvolge la stessa figura dell’analista, la sua stessa funzione. La psicanalisi deve saperlo. C’è un momento in cui il paziente mette a distanza l’analista da se stesso. Che cosa vuol dire “a distanza”? Vuol dire che comincia a mettere a fuoco che anche l’analista, al quale concede un enorme potere, è in realtà una persona come chiunque altro. È un uomo qualunque. È un uomo che ha anche lui le sue difficoltà e che anche lui deve confrontarsi con l’angoscia e con la paura della morte.
Questo è il passaggio fondamentale, in cui l’analista, se tiene bene il suo posto, se fa bene il suo lavoro, porta il paziente a diventare soggetto responsabile delle proprie scelte, un soggetto che si assume la responsabilità dei propri limiti e della propria libertà. È un soggetto che diventa immediatamente un soggetto politico sovrano.
La pubblicazione di questo libro è pertanto la testimonianza dell’articolazione fra lo psicanalitico e il politico, proprio perché l’autore sente il bisogno di non limitare la scoperta, che parte dall’ascolto dei suoi pazienti, ma di farne uno strumento di diffusione, utile per esercitare un test sulla nostra società, sullo stato della psicanalisi e sul nostro avvenire in un mondo che, se non recupera il messaggio del liberalismo, va verso la rovina. È questo l’impegno civile e politico.
Cito, per concludere, questo passo, che prendo come la cifra di questa articolazione: “La biopolitica comincia quando qualcuno ti dice: se vuoi salvarti la vita, resta in casa, rinuncia alla tua libertà”8.
Fabrizio Palombi
Ci sono degli eventi della storia che costituiscono una frattura dell’esperienza comune, ed altri che sono invece solo un’occasione di emergenza – nel senso etimologico del termine, che significa “portare alla superficie” – e sono intesi come aspetti caratteristici dell’esperienza medesima.
Tra i tanti spunti di riflessione del bel libro di Perrella, vorrei proprio soffermarmi su questo secondo aspetto: cioè sulle considerazioni che sviluppa sull’esperienza del Covid, che secondo me ci aiutano a riflettere sull’aspetto fondamentale della soggettività umana. Mi riferisco a un’esperienza fondamentale che chiamerei di dislocazione.
Partiamo da una questione antichissima: l’attualità di un grappolo di questioni che sono raccolte sotto la definizione del principio d’individuazione, che viene ben illuminato dal secondo capitolo del libro di Ettore Perrella intitolato Lavorare a distanza. Invito a consultare la voce Principio d’individuazione nel Dizionario di Filosofia Treccani, per capire che tale principio si pone il problema di definire, tra le varie cose, la coscienza di sé e la distinzione di un individuo da altri individui e dal mondo.
Consideriamo un esempio molto semplice, che anche la quotidianità, purtroppo, ha drammaticamente posto in evidenza: un medico deve diagnosticare le condizioni generali di un paziente traumatizzato, o malato, e gli chiede come si chiama, dove si trova, e la data nella quale si colloca. Le risposte sono oggettivamente esaminabili perché appartengono ad una trama spazio-temporale socialmente condivisa. Eppure, se la esaminiamo in prospettiva teoretica un po’ più ampia, ci rendiamo conto che le cose sono un po’ più complesse di quanto appaia al senso comune.
Ora, sorvoliamo sul fatto che non siamo noi a scegliere il nostro nome e il nostro cognome – che c’individuano in una rete sociale – e invece pensiamo alla percezione di quella parte del nostro corpo che è fondamentale per la definizione della nostra identità, ovvero al nostro volto, che è anche uno dei pochi dati che sono riportati nelle vecchie carte d’identità. Jaques Lacan, che è uno degli autori di riferimento di Perrella, ha insegnato che il riconoscimento del nostro volto è un fenomeno complesso, che viene espletato per la prima volta tra i sei e i diciotto mesi, ma che poi ci accompagna per tutta l’esistenza.
Il problema punteggia la nostra vita in alcuni eventi, talvolta drammatici, come nel caso descritto da Freud nel Perturbante. Freud è in un vagone-letto, viene chiamato da qualcuno fuori e, quando rientra nel suo scompartimento, sobbalza, perché vede che sembra esservisi introdotto un anziano signore, con un buffo cappello; dopo la sorpresa iniziale, si rende conto che in realtà quello sconosciuto è lui stesso, è la sua immagine riflessa in uno specchio. Questo può accadere anche quando dobbiamo riconoscerci in una foto scattata molti anni prima.
Come saprete, Lacan descrive il complesso comportamento del bambino davanti allo specchio che individua la doppia valenza dell’operazione necessaria al riconoscimento della propria immagine, cioè quello che Lacan ha sintetizzato come “stadio dello specchio”. Noi non possiamo vedere il nostro volto direttamente come vediamo il volto degli altri; dobbiamo farlo attraverso un riflesso speculare che può essere banalmente uno specchio o, ad oggi, tutta una serie di dispositivi tecnologici più complessi. Di tutto questo fenomeno, che è poi studiato in vari aspetti, vorrei soffermarmi su uno solo: il piccolo deve percepire l’immagine speculare e insieme ricondurla a se stesso con lo scopo di superare una sorta d’ingenuo realismo spaziale, che impedisce di sintetizzare le diverse immagini di oggetto collocate in diversi luoghi dello spazio in una realtà unica, per la quale vedo il mio volto laddove io non sono.
Ho richiamato questo noto fenomeno per evidenziare che la soggettività si costruisce a partire da una dislocazione fondamentale, che ci permette di comprendere un aspetto essenziale del nostro corpo, e cioè che esso è accessibile solo in modo dislocato, a partire da un riflesso.
Per parafrasare Lacan, che a sua volta riprende Cartesio, potremmo dire che vedo dove non sono e sono dove non vedo. Queste considerazioni forse potrebbero bastare a dimostrare la povertà di quella retorica dei corpi che ci affligge in questi mesi di pandemia e d’isolamento. La formazione e l’insegnamento, come la cura, non sono determinati da corpi di psicoanalisti o di docenti, che – per citare ironicamente Heiddeger – sono solo semplicemente presenti.
Pare che qualcuno sia convinto che la condivisione dello spazio sia condizione necessaria per esercitare la propria funzione. Credo che questo non solo non sia sufficiente, ma non sia nemmeno necessario. E Lo stadio dello specchio di Lacan dimostra come l’apparentemente semplice artificio tecnico di una superficie riflettente sia un elemento costitutivo della nostra soggettività. Si può addirittura tracciare un parallelo tra lo sviluppo della nostra capacità di esistere a distanza e l’evoluzione della civiltà a partire dalla scrittura come comunicazione e auto-comunicazione: i commerci, la stampa, la posta, il telegrafo, fino ad arrivare alla videocamera da cui vi sto parlando. Le epidemie hanno accompagnato la storia umana e sono state affrontate nei secoli con norme igieniche che oggi noi chiamiamo “norme di distanziamento sociale”. Gli strumenti digitali, in particolare il web, esistono da almeno un trentennio e la possibilità tecnica di lavorare a distanza esiste da almeno un paio di decenni.
La novità della condizione che stiamo vivendo oggi è stata il salto culturale, che il cortocircuito tra misure d’isolamento igienico e strumenti di comunicazione digitale ha determinato in questi mesi, fino ad arrivare ad uno standard rispetto al quale non penso si tornerà indietro. Non voglio iscrivermi, per citare Umberto Eco, né alla categoria degli apocalittici né a quella degli integrati, ma vorrei evidenziare un aspetto che mi ha affascinato e convinto e che ho apprezzato del testo di Perrella, vale a dire l’idea che non solo questa esperienza di distanziamento non impedisce una esperienza fondamentale come l’insegnamento, oppure come il rapporto analitico, ma che ha fatto emergere alcuni aspetti presenti da sempre all’interno di questi rapporti.
Faccio precisamente riferimento a quella fantasia di divoramento che presumibilmente assume il carattere di una sorta di “complesso di Crono”, che sembrerebbe più radicale del complesso edipico e che viene esaminata da Perrella in alcune parti del testo. La riflessione su questa struttura della soggettività, che ha un carattere universale e accompagna la stessa esistenza dell’essere umano, parte dall’esperienza clinica dei pazienti incontrati da Perrella via Skype. Nelle sedute a distanza essi traevano un giovamento costituito dalla diminuzione delle resistenze legate a questo aspetto della relazione analitica.
Ho estremamente apprezzato la varietà di temi e di registri su cui Perrella si muove, avvalendosi di considerazioni antropologiche e teologiche sulle varie forme di divoramento, costituite, per esempio, dall’allattamento, dal rituale dell’eucarestia e da una serie di temi che, nei paragrafi 2.6 e 2.7 del suo libro, Perrella sviluppa a partire dalla riflessione freudiana. Io credo che questo sia un atteggiamento che ha la nobiltà del gesto filosofico, col quale Perrella parte dall’aspetto emergenziale, non per lamentarsi dei tempi e dei costumi – come in quella forma di coazione a ripetere che spesso ci impegna ultimamente –, ma per trarre un insegnamento, una scoperta, uno sviluppo del significato che l’esperienza analitica possiede.
Franco Lolli
Vorrei riprendere alcuni dei temi che chi mi ha preceduto ha già introdotto; avevo preparato una scheda molto rapida e quindi mi atterrò a quello che avevo pensato di dire. Poi, se ce ne sarà la possibilità, riprenderò alcune questioni sollevate dai colleghi.
Partirei da un’osservazione sullo stile della scrittura, perché mi sembra un fatto degno di nota che questo libro – lo dico perché tra le molte persone che partecipano a questa presentazione ce ne sono parecchie non di ambito “psi” – è assolutamente chiaro, molto agevole, anzi direi, per restare sul piano dell’attualità, smart – molto agile, molto ben scritto –; ma al tempo stesso, è molto dotto e pieno di contenuti. Un pregio innegabile è che mette insieme la semplicità e la scorrevolezza di lettura con una certa densità di contenuti, senza scadere mai nella banalità. Non è un libro per iniziati, per una comunità di analisti e basta: quindi è un libro che chiunque può leggere.
Un altro pregio è la sua attualità, perché prende spunto da un fenomeno che stiamo vivendo tutti. Però vorrei mettere in evidenza un aspetto del riferimento all’attualità, a come affronta lo spunto da cui Perrella parte. Mi sembra che lui tratti il tema della pandemia con grande tatto e ho molto apprezzato quel che dice nell’introduzione, quando racconta del primo atteggiamento che ha avuto nei confronti della pandemia (e che io ho trovato molto corretto e molto giusto). Il primo atteggiamento, dice, è stato il silenzio, che è una delle tre grandi virtù che Kierkegaard raccomanda di avere per accedere allo stato di grazia del fiore nel campo e dell’uccello nel cielo. Trovo che sia davvero una virtù enorme: in tanti, tra i quali anche molti analisti, hanno cominciato immediatamente a blaterare, a chiacchierare sulla pandemia, senza capirci assolutamente nulla, ed abbiamo assistito a un susseguirsi di considerazioni vuote, a volte anche fastidiose, banali. Perrella, invece, ci fa sapere che ha preferito tacere, riflettere: “Mi pareva che nel momento in cui il contagio e le morti continuavano ad aumentare fosse preferibile tacere ed aspettare”9. Mi sembra, questo, un atteggiamento assolutamente di grande rispetto, una postura etica fondamentale nei confronti di quello che forse è un evento: non sappiamo ancora, infatti, se ci troviamo di fronte a una rottura o all’emersione di qualcosa, come diceva Palombi poco fa. Sembrerebbe che, per certi versi, siamo di fronte ad un evento, cioè a qualcosa che segna un prima e un dopo, ma non lo sappiamo ancora con certezza, perché è molto presto.
Sicuramente, come dice Perrella, siamo di fronte a un trauma e mi sembra molto appropriato quello che lui scrive: questa situazione impone – e io penso che davvero sarà necessaria – una riforma del simbolico10. Questa considerazione mi sembra molto importante.
Il libro raccoglie molte riflessioni su vari campi. C’è un vasto campo metapsicologico, sul quale non mi soffermerò, ma che meriterebbe una discussione approfondita: c’è poi una riflessione sul ruolo della psicoanalisi nel mondo – che è il tema che Piero Feliciotti ha anticipato – e della responsabilità politica dell’analista. Anche su questo tema ci sarebbe molto da dire, perché contiene un argomento che io ho trovato molto interessante, anche se molto problematico, e che forse costituisce uno dei fulcri principali del pensiero dell’autore all’interno di questo libro: mi riferisco all’affermazione di Perrella secondo cui la psicoanalisi non può essere illegale, ma neanche legale. Giustamente, lui lega questa affermazione alla questione della “legge Ossicini” e della professione della psicoterapia, ma mi sembra che prenda spunto da questo aspetto della vita recente della psicoanalisi italiana per trarne delle conclusioni ulteriori. Sarebbe molto interessante, allora, se lui potesse dircene qualcosa, perché questo rimbalzo tra le sponde del legale e dell’illegale resta un punto che merita di essere approfondito.
C’è poi un aspetto solamente accennato – ma denso di riflessioni – sulla trasformazione della tecnica analitica. Effettivamente tutti noi, analisti, nel momento in cui abbiamo accettato – e penso che in tanti abbiamo accettato – di “vedere” persone da remoto, abbiamo prodotto una modifica del setting, che non è di poco conto. Ho trovato a questo proposito molto pertinente e molto acuta un’osservazione che fa Ettore Perrella quando, pur valutando positivamente il ricorso a Skype, sottolinea, in un passo molto intelligente, come la visione non sia lo sguardo: lo schermo consente la visione, ma in qualche modo castra lo sguardo. Si tratta, secondo me, di una notazione molto acuta e densa di sviluppi. Resta da capire che cosa questa trasformazione del setting comporterà; penso che uno degli sviluppi che lui intravede è quello che accenna nel finale del libro, quando dice che, se è vero che tutti noi abbiamo usato questa scialuppa – definisce così l’uso di Skype, sia per noi che per i pazienti –, è altrettanto vero che su Skype non si può fare analisi. Si può fare psicoterapia: non psicoanalisi. E questo sarebbe un altro dato su cui discutere. Perrella ha una posizione molto chiara, molto netta che, per certi versi, trovo assolutamente condivisibile; e forse proprio a causa della distinzione che lui opera tra visone e sguardo. È questo un tema su cui noi tutti ci interroghiamo e su cui iniziamo a riflettere, perché l’uso massiccio di Skype o di Zoom, o di non so quale altra piattaforma, è troppo recente perché ancora ne possiamo dire qualcosa di più preciso: siamo tutti in mezzo a questo mare, con questa scialuppa, e dobbiamo capire dove ci porterà.
C’è, nel libro, anche un’importante analisi economica, politica, geopolitica (che serve all’autore per contestualizzare la condizione della psicoanalisi), che, secondo me, è molto interessante ed espressa in un tono discorsivo che, penso, possa dare la possibilità ad un lettore non “psi” di incontrare una prospettiva ed uno sguardo intelligente sulla contemporaneità. A queste considerazioni si lega poi la questione dell’uso dei famigerati DPCM. Perrella, anche in questo caso, mostra di avere una posizione molto netta: in più passaggi definisce questi atti governativi come un attentato alla sovranità.
Ora, è chiaro che, quando l’autore parla di sovranità, questo non ha nulla a che fare con la deriva populistica del sovranismo. Ovviamente il concetto si riferisce a tutt’altro e, dunque, non c’è nessuna eco delle banalità che sentiamo dire dai cosiddetti “sovranisti”. Ma, per l’appunto, il riferimento a questo concetto di sovranità c’è e costituisce, a mio avviso, un punto etico di grande rilievo, centrale, un vero fulcro teorico: come poter far sì – come dice lo stesso sottotitolo – che un atto sia analitico, sia politico, diventi sovrano e dunque consenta in qualche modo la possibilità di un’affermazione soggettiva? Trovo questo aspetto molto importante.
Molto interessante è anche la lettura del confronto che fa Perrella tra la psicoanalisi come peste e la pandemia come peste. Sappiamo che Freud, arrivando negli Stati Uniti, definì la psicoanalisi come la peste. Risuona nella mente dell’autore questo abbinamento con il periodo pandemico che stiamo vivendo. Questo costituisce un ulteriore filone di ragionamento, su cui l’autore si intrattiene con acume.
Altro punto centrale, di natura metapsicologica, che ho trovato di grande interesse è quello che ha a che fare con il mito di Crono e quindi con la questione del figlicidio. Per noi psicoanalisti, i riferimenti ai passaggi di Freud sul mito di Crono costituiscono un materiale molto prezioso.
Altro tema del libro, questo molto “caldo”: la distinzione tra psicoanalisi e psicoterapia. Perrella ragiona su cosa abbia voluto dire, per la psicoanalisi, accettare di entrare nella “legalità”, inserendosi dentro quella pratica di tipo “sanitario”, che ha dato poi origine alla fondazione delle scuole di psicoterapia. Anche su questo punto la posizione di Perrella – com’è noto del resto – è molto chiara. Una posizione netta che risuona con il tema della sovranità, del rapporto tra legalità e illegalità, tema che a me piacerebbe molto approfondire, perché lo trovo veramente fondamentale.
Un’ultima notazione, anche questa in assoluta controtendenza, che, pertanto, ho apprezzato molto. Ettore Perrella non fa difficoltà a definire lo psicoanalista un educatore, ovviamente contestualizzando il discorso dell’educatore all’interno della questione della formazione, che è l’orizzonte teorico entro cui il termie “educatore” va preso: educatore, dunque, non in senso prescrittivo, ma come agente della formazione. In questo passaggio rintraccio uno dei tratti che, a mio avviso, per Perrella è decisivo rispetto all’identità dell’analista e della psicoanalisi stessa. Lo trovo importante perché noi psicoanalisti, noi lacaniani in modo particolare, siamo abituati a dire che la psicoanalisi non è una pedagogia, né un’ortopedia. Sì, questo è vero: tuttavia sappiamo, senza mai troppo ammetterlo, che qualcosa di questo aspetto “formativo” passa nelle analisi che conduciamo, anche se in maniera inavvertita. Dunque, questa evocazione della figura dell’educatore la trovo molto coraggiosa. Addirittura, Perrella fa un elenco di posture dell’analista che, come quella paterna, vanno in quella direzione. Anche se non coscientemente, qualcosa dell’educativo, in qualche modo, risuona nell’atto di ogni analista, anche se sconfessato dal punto di vista dottrinale.
Luca Lupo
Permettetemi di iniziare con una precisazione. Per quel che ne so, credo che sia riconducibile a Lacan stesso l’unica testimonianza attestabile del fatto che Freud, parlando con Jung, durante il viaggio negli Stati Uniti del 1909, avrebbe pronunciato la famosa frase “non sanno che portiamo loro la peste” (“Ils ne savent pas que nous leur apportons la peste”)11.
La frase sarebbe stata pronunciata in vista del porto di New York, e “della celebre statua che illumina l’universo”, la statua della libertà. Paradossalmente, era proprio Freud a portare, nell’ambito delle “scienze dello spirito”, quella libertà che i suoi ospiti americani, nonostante la statua, avrebbero contribuito a minare alle fondamenta, orientando il pensiero psicoanalitico in direzione psicologica e psicoterapeutica, in una sorta di dispostivo di rafforzamento dell’ego e delle sue peggiori distorsioni narcisistiche.
Contesualizzando in chiave biografica la testimonianza lacaniana, Roudinesco racconta che Lacan sarebbe andato da Jung per parlare del movimento psicoanalitico e della rottura tra lui e Freud. Questa nota storiografica è particolarmente interessante per via della insolita e inaspettata triangolazione che mette in luce tra Lacan, Jung e Freud.
Nel corso degli ultimi trent’anni lo stile di Perrella si è molto trasformato. Si potrebbe dire che l’obiettivo principale di Perrella sia stato tradurre sé stesso, sganciarsi dal lacanese, dallo “psicoanalitichese”, per avvicinarsi a un linguaggio che – senza essere triviale – permetta una maggiore condivisione di ciò che tenta di dire.
Verso la metà del 2019 un tale, da qualche parte, a migliaia di chilometri da qui, si è mangiato un pipistrello infetto. Questa è una tra le molte altre ragioni – che non conosciamo – per cui siamo qui. Ci siamo perché questo tale ha mangiato il pipistrello infetto e Perrella, come centinaia di altri intellettuali, ha scelto di usare parte del suo tempo per pensare a quello che sta succedendo, provando a darsi delle risposte.
Questo atto quotidiano, di una persona qualunque, ha scatenato una reazione a catena di dimensioni epocali. È un atto che avrà conseguenze per decenni. Certamente le cose sono molto più complesse di così e, se si vuole, questa è una semplificazione, un mito, che però ci spinge a comprendere come, dal punto di vista del sapere, dal punto di vista epistemologico, sia difficile individuare un inizio.
È persino complicato scegliere in quale punto della linea, ininterrotta, delle cose che accadono ha avuto inizio ciò che sta succedendo. È l’effetto di una nostra decisione lo scegliere il punto di partenza.
Si tende a rimuovere il fatto che tutti i grandi movimenti nascono, sempre, dalla decisione e dall’atto di un singolo. Si è detto che naturalmente le cose sono più complicate di come qui vengono descritte. Il significato della parola “complicato” ha a che fare con qualcosa d’intrecciato, con un tessuto, con una rete.
Sulla falsa riga di una versione assai semplificata ma non per questo meno vera nella sua essenza della teoria dei sistemi, si provi ad immaginare una rete, costituita da nodi, in cui i vari fili che la formano s’incontrano. Si immagini che ogni nodo sia dotato di un’energia, che eserciti una forza, che si esprime in un movimento. Il movimento, che incomincia in un nodo, si trasmette al resto della rete. Una rete è un intero ed ogni intero è fatto di parti e di elementi. Ogni movimento di ogni elemento ha effetto su tutti gli altri. In altri termini – come direbbe qualche rinascimentale, qualche neoplatonico – tutto interagisce con tutto. Si potrebbe immaginare la comunità umana come una rete in cui i singoli individui sono dei nodi. Per analogia si può ricavare che l’atto che il singolo individuo produce abbia effetto sull’intero costituito dalla comunità. Dunque ogni singolo individuo è responsabile di ciò che accade nell’intero e all’intero.
Passando ad un piano più concreto, se in alcuni Paesi, come il Giappone, la Cina, Taiwan, la Nuova Zelanda e la Danimarca – quindi sia in Oriente sia in Occidente – la pandemia è sotto controllo, questo non dipende necessariamente o non dipende per niente dal fatto che in questo o in quel Paese si sia usata una forma più o meno intensa di costrizione sull’individuo da parte di un’autorità altra, politica. Se in alcuni paesi la pandemia è stata arginata con efficacia, questo dipende dal fatto che la percezione, la consapevolezza, da parte dell’individuo, d’essere parte di un intero è più forte, per le più diverse ragioni: storiche, sociologiche, psicologiche o quelle che si vuole.
Si può supporre, passando dal piano collettivo a quello individuale e soggettivo, che un nodo della rete non funzioni. Per restare nella metafora, immaginiamo che un nodo non funzioni, che non riesca a produrre movimento, e che questo fatto di non poter produrre movimento gli procuri una grande sofferenza. Perché non funziona? In primo luogo perché non sa da dove viene la sua sofferenza. Uno dei primi compiti della pratica che prende il nome di “psicoanalisi” è rendere consapevole chi affronta un’analisi d’appartenere ad una rete estesa nello spazio e nel tempo; vale a dire di rendere consapevole il soggetto d’essere uno dei nodi di questa rete, quando invece il singolo nodo pensa di non essere un nodo, ma pensa d’essere isolato e di poter fare quello che fa come se non facesse parte della rete.
In un’analisi si ha a che fare con dei nodi, che sarebbero i singoli soggetti, che non sanno d’essere dei nodi, oppure negano d’esserlo (nelle varie forme di dire di no che caratterizzano la psicoanalisi): prima di tutto lo negano a sé stessi, anche se, in fondo, sanno d’esserlo. Ed è soprattutto per questo motivo, per imparare a saperlo, che si va in analisi. Se si va in analisi, è perché in fondo si sa già quello che si crede di non sapere, e lo si vuole sapere, anzi lo si desidera, anche se questo desiderio di sapere è un desiderio strano, doloroso.
Per imparare a sapere quello che sanno, ma che credono di non sapere, le persone che vanno in analisi devono percorrere in lungo e in largo la rete di cui fanno parte ed in cui sono immersi, prima di capire che ne fanno parte12. E la si percorre virtualmente nello spazio e nel tempo con le parole che si dicono, virtualmente, ma anche realmente, in un certo senso: ripercorrendo questa rete la si crea, la si costruisce.
In analisi dunque si tratta di un capire, ma di un capire che non è cognitivo, intellettuale, “cerebrale”. Non è il sapere dell’università. È un capire che passa attraverso un sentire che si è parte della rete. Ora, la specificità, l’originalità e la forza della riflessione di Perrella passa attraverso l’esercizio d’uno sguardo che a sua volta è reticolare sulla realtà, d’uno sguardo che cerca di vedere “la struttura che connette”13, ciò che tiene insieme fenomeni tra loro apparentemente lontani. Il testo di Perrella si contraddistingue per una sorta di trasversalità che è sia epistemologica, sia ontologica; cioè riguarda più forme di sapere e più oggetti per come essi si manifestano.
Questo esercizio orientato alla ricerca e all’individuazione del legame, di ciò che tiene insieme, dal mio punto di vista è un esercizio filosofico prima ancora che essere un esercizio analitico. La specificità dell’idea di psicoanalisi di Perrella è un’idea della psicoanalisi in primo luogo come formazione, come per altro sia Lolli sia Feliciotti hanno messo in evidenza.
Si tratta di un’idea che s’iscrive in pieno nel discorso freudiano e che troviamo già in Freud, soprattutto nell’ultimo Freud14. Non so come risponderebbe Perrella alla famosa domanda: “Sei freudiano o sei lacaniano?”. Io direi che Perrella in questo è freudiano. Perrella ha colto questo spunto della psicoanalisi come formazione in Freud e lo ha sviluppato, mettendone in evidenza il legame con la tradizione filosofica, soprattutto platonica, ma in generale greca.
Qui arriviamo al cuore del libro, dal mio punto di vista. Una storia greca racconta che in una città c’era una terribile pestilenza, della quale non si sapeva la ragione. Sembra una storia piuttosto attuale. Questa storia sta alla base della psicoanalisi stessa, come sappiamo.
Il re di questa città comincia ad indagare sulle cause delle pestilenza e gradualmente capisce, con sorpresa e con orrore, che è lui stesso la causa della sofferenza e della pestilenza. Insomma che cosa capisce? Capisce di essere quel tale che in Cina si è mangiato il pipistrello.
Il re scopre che c’è la pestilenza perché lui ha commesso un delitto orribile, ma lo ha commesso senza saperlo: ha ucciso suo padre, ha sposato sua madre. In realtà se tutto questo è accaduto, è perché, a monte di questa storia, a sua volta il padre del re avrebbe voluto ucciderlo quando era appena nato, ed avrebbe voluto farlo perché un oracolo gli aveva detto che, se non lo avesse fatto, sarebbe stato ucciso dal suo stesso figlio. Il padre quindi ha deciso d’uccidere il figlio, per evitare d’essere ucciso, ed ha fatto questo per cercare di preservare sé stesso. Ma il padre, nel tentativo di preservare sé stesso, in realtà si è rovinato con le sue stesse mani, perché non è riuscito ad uccidere il figlio ed è andato incontro al suo destino di morte, come sappiamo.
Allora tutto dunque accade perché il padre ha cercato di fare qualcosa che va contro la natura delle cose, mentre è nella natura delle cose che il padre dia la vita al figlio e che il figlio “uccida” il padre. Ogni figlio uccide il padre, per il fatto stesso che è destinato a sopravvivere al padre, anzi, in larga misura, nasce proprio per questo: per sopravvivere al padre. Per questo il padre non può non provare un forte – ed inconsapevole – sentimento di ostilità nei confronti del figlio, che gli presentifica questo suo destino di morte. Per ogni padre il figlio significa sempre la propria morte. Da una parte il padre genera il figlio per sconfiggere la morte, dall’altra però questa sconfitta della morte, ottenuta mediante il figlio, passa attraverso la morte del padre e la preannuncia. Da tutto questo meccanismo nasce il sentimento ambivalente del padre verso il figlio. Allo stesso tempo anche il padre, quando genera il figlio, gli dà la vita, ma gli dà anche la morte, e da qui si genera il sentimento ambivalente verso il padre: sentimento di gratitudine, ma allo stesso tempo di ostilità, perché il figlio percepisce inconsciamente il fatto che il padre gli ha dato la morte insieme alla vita.
Quindi padre e figlio rappresentano, l’uno per l’altro, sia la vita sia la morte. Ma sia la vita sia la morte sono qualcosa che eccede, che va al di là di questi soggetti e che non è nel potere né del padre né del figlio. Anzi queste sono, forse, le uniche cose che non sono in loro potere. Vita e morte rappresentano la necessità ed il mistero che va aldilà di entrambi ed aldilà dell’umano. E Perrella mostra, alla fine dei conti, in questo libro, come la vicenda della pandemia ci riporti al punto di origine e ci costringa, tutti, a confrontarci con il mistero dell’origine intorno a cui ruota la psicoanalisi ed il nostro stesso destino, cioè la vita di ciascuno.
Noi che cosa facciamo da parte nostra? Utilizziamo gran parte delle nostre energie per sottrarci a questo confronto con il punto d’origine. Ma più cerchiamo di sottrarci, più quello che neghiamo ci torna indietro in forma di malattia ed in forma di sintomo.
Ettore Perrella
Innanzitutto ringrazio Piero Feliciotti, Fabrizio Palombi, Franco Lolli e Luca Lupo, perché hanno toccato dei punti che credo siano veramente essenziali in questo breve libro, che ho scritto, più che altro, per un impulso che mi portava a fare qualcosa in un momento in cui eravamo tutti ridotti a non poter fare granché, in quanto vivevamo in una sorta di libertà limitata. Ringrazio, poi, anche la Casa editrice, che ha voluto pubblicare questo libro in tempi così rapidi e organizzare questa chiacchierata.
I punti che dovrei o potrei riprendere nei quattro interventi di prima sarebbero tantissimi e non posso riprenderli tutti, perché devo limitarmi a pochi minuti, per cui la cosa che forse mi risulta più immediata è riprendere gli spunti che poneva Franco Lolli nel suo intervento. In definitiva il titolo di questo libro, La psicanalisi oltre la pandemia, è seguìto da un sottotitolo che può sembrare un po’ curioso: Atto analitico, atto politico, atto sovrano. Qualcuno si potrebbe chiedere che c’entrino gli atti analitico, politico e sovrano con la pandemia. In apparenza non c’entrano niente, però credo che Franco Lolli abbia colto perfettamente il punto. Provo a dirla in questo modo: c’è un punto di complicità della psicanalisi in estensione – quindi della psicanalisi costituita da tanti psicanalisti, o da tanti “psico-quello che si vuole” – con un ordine sanitario che è in gran parte responsabile delle morti che si sono verificate a causa di questa pandemia.
Mi spiego meglio: se la pandemia fosse esplosa al tempo in cui in Italia c’era ancora un’attrezzatura sanitaria molto più estesa, prima che fosse continuamente sforbiciata dai vari governi degli ultimi trent’anni, probabilmente i morti in Italia sarebbero stati meno. È quella storia banale di cui si sente parlare: in Germania c’erano quattro volte i posti letto che c’erano in Italia nelle terapie intensive, dunque in Germania è morto un quarto delle persone che sono morte in Italia. La decisione di sforbiciare le spese sanitarie in Italia è stata una decisione politica dovuta alla preminenza che è stata data a dei problemi di carattere che non definirei economico, ma finanziario. Con ciò mi ricollego anche a quanto notava Piero Feliciotti.
Dunque, com’è che io sono giunto ad occuparmi di un problema come la sovranità? Sembra un concetto molto astratto e, per di più, malamente inquinato dal sovranismo che fa, sulla sovranità, un discorso molto vecchio, facendo coincidere la sovranità con la sovranità nazionale. Si tratta del principio balordo che ha reso possibili due guerre mondiali e decine di milioni di morti; altro che pandemia da Covid-19. Comunque sono arrivato a pormi il problema della sovranità prima di tutto per una questione interna alla psicanalisi, che è stata assoggettata – e gran parte degli psicanalisti o sedicenti tali si sono voluti assoggettare – ad un ordinamento sanitario nazionale, quando la psicoterapia è stata interpretata da una legge italiana assolutamente malaugurata e mal fatta come una pratica sanitaria. Che cosa ha fatto la gran parte degli psicanalisti? Ha detto: «Ah, menomale! Adesso sappiamo chi siamo, siamo degli operatori sanitari». Questo risale ancora alla fine degli anni Ottanta ed io, agli inizi degli anni Novanta, cominciai ad occuparmi di questa questione: come è stato possibile che gli analisti non si siano accorti che lo Stato stava impedendo loro di fare il loro lavoro?
Impostare come una psicoterapia – quindi come una pratica sanitaria – quella che, a mio modo di vedere è essenzialmente una pratica formativa voleva dire impedire la formazione. Allora il paradosso – che sicuramente precede la pandemia, ma che la pandemia ha amplificato e reso immediatamente evidente ovunque sul pianeta terra – è che sottoporre il punto di vista etico della sovranità individuale di ciascuno, cioè la libertà individuale, a dei criteri economicistici – anzi finanziari – vuol dire effettivamente ostacolare o impedire la libertà di ciascuno.
Questa cosa è stata notata in tanti modi: quel delirio interpretativo per cui qualcuno ha pensato che questo virus sia stato prodotto da qualcuno in laboratorio e messo in circolazione appositamente per provocare la morte di un sacco di gente – questo è sicuramente un delirio, perché non c’è nessuno che sia così potente da realizzare tutto ciò –, però, in fondo, coglie qualcosa di reale. Tutti i deliri, da qualche parte, per quanto folli siano, colgono qualcosa di reale. Ed è proprio per questo motivo che diversi anni fa, scrivendo un piccolo libro che si chiamava Psicanalisi e Diritto15, incominciai ad occuparmi del diritto. E di lì era facile passare ad occuparmi anche della questione della sovranità, sulla quale mi sto arrovellando da diverso tempo. Questo nuovo piccolo testo sulla pandemia, nato quasi come una chiacchierata, più che come un libro vero e proprio, non è altro che un messaggio, come se dicessi: questo virus, che sta modificando tutta la nostra vita quotidiana, che ci sta togliendo delle cose che ci sembravano assolutamente scontate, come il diritto d’andare dove ci pare con chi ci pare, non fa altro che dichiararci che ci siamo sbagliati, quando abbiamo pensato che fosse scontato sovrapporre l’economia e la finanza.
Quindi il rapporto tra la psicanalisi e la responsabilità politica è fondato essenzialmente nella responsabilità etica che è degli psicanalisti, ma, in definitiva, è degli psicanalisti solo perché è di ciascuno, di qualunque individuo che, in quanto tale, è tenuto a riconoscere – come diceva Luca Lupo poco fa – d’essere un nodo all’interno di una rete, sociale e quindi in definitiva anche politica. Quando nella rete si tocca un nodo, si instaura un meccanismo che poi si diffonde dappertutto. Perciò il virus, spuntato fuori in un mercato di Wuhan, ha finito per appestare l’intero pianeta.
Questo mi fa venire in mente il famoso apologo della farfalla che batte le ali nel Sud-Est asiatico e dopo un po’ di tempo, in Sud-America, c’è il Niño, che produce una specie di cataclisma. Nella realtà può accadere che un evento minuscolo produca effetti enormi, però queste cose che succedono in negativo qualche volta possono succedere anche in positivo. Perciò credo che sia importante che noi, sia in quanto ci interessiamo di psicanalisi o operiamo in questo campo, sia in quanto ci occupiamo in qualche modo della formazione in generale, sappiamo che, quando facciamo qualcosa, questo qualcosa ha degli effetti.
Faccio un altro esempio molto semplice: non è un caso che il problema che si è posto nella psicanalisi, quando non ci si è potuti incontrare in presenza, si sia posto anche nelle scuole. Le scuole sono state chiuse, poi sono state riaperte e poi sono state chiuse un’altra volta, se non del tutto, almeno in gran parte. Fra l’altro, se noi ci facciamo caso, mentre nella prima fase della pandemia c’era un effetto tragico, che era del tutto evidente ad esempio nelle scene – le abbiamo viste tutti – dei morti che venivano portati via con i carri dell’esercito perché non c’erano posti nei cimiteri per seppellirli, invece nella seconda fase siamo arrivati alla commedia all’italiana: ci siamo accorti che tutti i disastri che si stanno verificando adesso sono dovuti al fatto che nessuno ci ha pensato prima; questo perché c’è un meccanismo amministrativo istituzionale che non funziona. Esempio stupido: si sono spesi milioni per comprare i banchi nelle scuole e non si è spesa nemmeno una lira per comprare qualche autobus in più, per portare gli studenti a scuola. Questo fa pensare. E qualche volta viene da chiederci: “Chi ci governa?”.
Tutto ciò – potreste dire – che cosa ha a che fare con la psicanalisi? Credo che vi abbia qualcosa a che fare, perché chi s’interroga sul proprio compito, sul proprio desiderio, su che cosa ci sta a fare qua al mondo, penso abbia non solo il diritto ma anche il dovere di intervenire in una comunità e quindi di diffondere in qualche modo quello che pensa e di interloquire con altri.
In fondo la caratteristica della democrazia, come dimostrò Alexis de Tocqueville quasi duecento anni fa, è di far riconoscere a ciascun singolo individuo di essere lui il sovrano. Lo dimostrò quando andò a descrivere gli Stati Uniti d’America: il presupposto della democrazia americana è che ciascuno, ciascun individuo, è sovrano. Ed è un po’ curioso che la patria della democrazia abbia potuto eleggere democraticamente un personaggio come Trump, dal quale per altro sembra che non riusciamo a liberarci, perché, nonostante abbia perso le elezioni, imperversa e non vuole andarsene. In tutto ciò c’è un aspetto di commedia, che però, ad un certo punto, rischia d’essere macabra. A volte gli effetti della commedia sono i campi di sterminio.
Su questo punto credo sarebbe opportuno avere qualche sospetto; in fondo questo libro l’ho anche scritto perché io non ho mai pensato a tesi complottiste, o che ci fosse qualcuno che volesse ridurci tutti in schiavitù. Però non potevo non riconoscere che la possibilità di ridurci tutti in schiavitù c’era prima della pandemia e che la pandemia potrebbe addirittura accrescerla. Se noi non ci ribelliamo a questa schiavitù, rischiamo di diventare complici del tiranno e – come sappiamo – le tirannie funzionano proprio perché trovano milioni di complici. In fondo lo stesso Hitler fu eletto democraticamente in Germania.
Avrei moltissime altre cose da dire sul fatto che, a mio modo di vedere, la psicanalisi, prima di essere una cura di qualche cosa, una terapia o una psicoterapia, è una pratica formativa e che, come tale, deve essere difesa; quindi difenderla non è un problema che riguardi solo quattro gatti che si chiamano psicoquellochevolete, ma è una questione di civiltà. Quindi, in qualche modo, siamo tutti responsabili – dagli studenti del liceo fino ai vari Parlamenti e a tutte le istituzioni – del fatto che la civiltà che ci è stata trasmessa dovremmo cercare di trasmetterla anche ad altri, per le prossime generazioni.
Qui non si tratta solo di psicanalisi, ma del rispetto di quei princìpi di civiltà senza i quali la psicanalisi non potrebbe sopravvivere.
2 Ibid.
4 Ibid., p. 19.
5 Ibid., p. 82.
6 Ibid., p. 9.
7 Ibid., p. 44.
8 Ibid., p. 69.
9 Ibid., p. 10.
10 Ibid., p. 40.
11 J. Lacan (1956), La cosa freudiana. Senso del ritorno a Freud in psicoanalisi, in Scritti (1966), Einaudi, Torino 2002, vol. 1, p. 393. Questo il capoverso originale: “C’est ainsi que le mot de Freud à Jung de la bouche de qui je le tiens, quand invités tous deux de la Clark University, ils arrivèrent en vue du port de New York et de la célèbre statue éclairant l’univers: ‘Ils ne savent pas que nous leur apportons la peste’, lui est renvoyé pour sanction d’une hybris dont l’antiphrase et sa noirceur n’éteignent pas le trouble éclat. La Némésis n’a eu, pour prendre au piège son auteur, qu’à le prendre au mot de son mot. Nous pourrions craindre qu’elle n’y ait joint un billet de retour de première classe”.
12 Cfr. J. Lacan, Il seminario, Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964), Einaudi, Torino 1979, p. 46.
13 Cfr. Gregory Bateson (1979), Mente e Natura, Adelphi, Milano 1983, passim.
14 S. Freud (1932), Introduzione alla psicoanalisi. Seconda serie di lezioni, Lezione 34.
15 E. Perrella, Psicanalisi e diritto. La formazione degli analisti e la regolamentazione giuridica delle psicoterapie, recentemente ripubblicato da ETS Edizioni, Pisa 2018.