novembre 2020

pag. 1 Buon lavoro, Presidente Biden / pag. 2 La violenza di genere, tra cultura e individualità


Buon lavoro, Presidente Biden di Ettore Perrella

1. Nei tempi bui in cui stiamo tutti vivendo, una sola notizia mi ha davvero rallegrato: la vittoria di Joe Biden alle elezioni presidenziali negli Stati Uniti. Il solo fatto di non aspettarmi più di vedere la faccia di Trump alla televisione, per i prossimi anni, basterebbe a giustificare la mia soddisfazione, anche se questa dipende soprattutto da motivi politici molto più concreti. In effetti, tutte le decisioni prese da Trump mi parevano – e certamente non parevano solo a me – contrarie alle necessità del nostro tempo. Trump ha ripiegato sull’isolazionismo (“America first”), ha negato l’adesione degli Stati Uniti al trattato di Parigi, tornando a incentivare l’uso del carbone, ha abbandonato i curdi, che pure avevano sconfitto l’Isis, ha spostato l’ambasciata americana in Israele a Gerusalemme, ha appoggiato la destra più estrema e razzista, ed infine ha migliorato il PIL del suo Paese, ma tornando a favorire i capitalisti invece della popolazione.

Per tutti questi motivi non sono il solo a sperare che il nuovo Presidente Biden, che è di origine irlandese e cattolico (come Kennedy), con l’aiuto della prima Vicepresidente donna, possa fare di meglio. L’Europa e il mondo intero possono fare poco, se gli Stati Uniti si chiudono su se stessi, come accadde per esempio poco dopo la fine della prima guerra mondiale, quando non aderirono alla Società delle Nazioni, che pure era stata fortemente voluta dal loro Presidente Wilson.

Tuttavia nel momento in cui ho sentito il primo intervento in cui Biden parlava come Presidente, la mia mente è stata attraversata da uno strano malessere, che mi si è chiarito subito quando mi sono venute in mente queste non meno strane parole: “Non ho potuto votarlo!”.

Perché avrei dovuto? Io non sono americano. Nessun italiano e nessun europeo lo è. Perché allora a tutti noi interessa tanto sapere chi governa a Washington?

2. Il motivo del fatto che gli Stati Uniti d’America vengano spesso chiamati, in modo colloquiale, semplicemente Stati Uniti forse non dipende solo dal comune amore per la brevitas, ma esprime un’antica vocazione di questo Paese, che sorse subito come una federazione: perciò specificare che gli Stati Uniti erano d’America divenne superfluo, perché tutti gli altri Stati del pianeta erano radicalmente disuniti uno dall’altro.

Gli USA nacquero pochi anni prima della rivoluzione francese, quando l’Europa era ancora governata dall’ancien régime, con tanto di teste coronate. Perciò la scommessa originaria degli Stati Uniti fu perfettamente colta, in Francia, all’inizio del secolo successivo, da Tocqueville, che capì subito che questo nuovo Stato era l’unico effettivo campione della libertà (non è un caso che la famosa statua che la rappresenta, e che accoglie tutti i viaggiatori che si recano a New York via mare, sia stata un dono della Francia). Quello che capì Tocqueville, insomma, ha qualcosa a che vedere con l’origine del mio strano pensiero. Il punto mi pare questo: questo Paese, a differenza di quanto è accaduto in Europa, non ha mai sovrapposto il concetto di Stato con quello di nazione.

Proprio da questo, nella politica statunitense, è sempre dipesa la tendenza – anche se molte volte contraddetta nella storia, prima dallo schiavismo, poi dall’isolazionismo, poi ancora dall’appoggio a tante dittature sudamericane – a pensare che gli USA fossero un baluardo dei princìpi comuni e sovranazionali dell’intero Occidente, anzi dell’intero pianeta (al tempo del colonialismo. del resto, i due concetti coincidevano). Che questo privilegio abbia poi contribuito allo sviluppo dell’imperialismo americano è sicuramente vero, ma questo nulla toglie alla validità del principio.

In fondo, gli Stati Uniti sono intervenuti nelle due guerre che hanno massacrato l’Europa proprio perché difendevano – rendendosene conto o no, poco importa – una concezione unitaria e sovranazionale della sovranità: sia perché gli USA non sono mai stati una nazione, ospitandone numerose fra i loro cittadini, sia perché furono proprio gli Stati nazionali a provocare i massacri di quelle due guerre.

Si noti che, dopo la dissoluzione dell’URSS – Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche: lo dico per quei lettori che forse potrebbero aver dimenticato che significava quella sigla –, che a loro volta erano una federazione, proprio come gli Stati Uniti –, gli USA sono rimasti l’unico Stato sovranazionale – o l’unica nazione sovrastatale – esistente sul pianeta.

Per tutti questi motivi, quando diciamo “Stati Uniti”, certo sappiamo bene che ad essere uniti sono solo i cinquanta Stati degli USA. Ma, anche se non ce ne rendiamo conto, siamo anche costretti a pensare che tutti gli Stati del pianeta potrebbero essere non meno uniti di quei fortunati cinquanta. In fondo, proprio questo pensava Spinelli: anche gli Stati europei avrebbero potuto diventare una federazione, gli “Stati Uniti d’Europa”. E il nome dell’Unione Europea, in fondo, evoca proprio questa prospettiva, che purtroppo nel nostro continente, nonostante i faticosi progressi del federalismo, rimane ancora remota.

3. Ecco spiegato, allora, il motivo del mio strano pensiero. In fondo, tutti noi occidentali pensiamo inconsapevolmente che il Presidente degli Stati Uniti sia una specie di confusa figura d’un Presidente dell’umanità, e quindi, in qualche modo, anche il “nostro” Presidente.

So bene che, dicendo questo, sto ammettendo di fare una fantasia fantapolitica. Ma perché no? In fondo tutti i grandi progressi della storia sono nati da fantasie che rimanevano fantapolitiche finché non venivano almeno in parte realizzate. Né Alessandro Magno, né Cesare, né Carlo Magno, né Napoleone, né Garibaldi, né Cavour, né Lenin, né Roosevelt, né Churchill avrebbero avuto successo se non fossero stati guidati, nelle proprie decisioni, anche dall’immaginazione: cioè da quella capacità che oggi, purtroppo, sembra mancare quasi del tutto alla stragrande maggioranza degli uomini politici.

Naturalmente l’immaginazione, da sola, può anche essere una pessima consigliera, in politica come in ogni altro campo, se non è accompagnata dalla ragione. Ma a me pare che Biden e Kamala Harris di ragioni ne abbiano molte, a differenza di Trump. Perciò non mi resta che augurare loro buon lavoro, convinto come sono che, se riusciranno a realizzare i loro programmi, il loro successo sarà almeno un poco anche un successo di noi tutti.

4. Un’ultima considerazione, in appendice. Trump non sta riconoscendo la vittoria del suo rivale, che accusa d’aver vinto solo con dei brogli. Non penso proprio che riuscirà, sostenendo questa tesi, a fare invalidare il risultato. Da quando esiste la democrazia, si è subito presentata la possibilità che delle decisioni vengano prese con delle falsificazioni. Qualche volta è vero – come credo che sia avvenuto in Bielorussia di recente –, ma di solito non lo è. Anche in Italia, quando un referendum decise che il nostro Paese cessasse d’essere una monarchia, molti pensarono che ci fossero stati dei brogli. Ma questo nulla ha tolto al fatto che la Repubblica Italiana esiste da più di settant’anni.

La democrazia non è che uno degli arrangiamenti amministrativi possibili della sovranità e nulla garantisce che le maggioranze dei votanti prendano sempre la decisione migliore. Gli stessi elettori americani che ora hanno scelto Biden, quattro anni fa hanno eletto Trump. Ed anche Hitler fu eletto democraticamente.

La democrazia non fa miracoli, anzi è sempre stata la forma di governo più instabile, perché può funzionare solo se è accompagnata dalla sensibilità politica e civile – vale a dire, in ultima istanza, etica – dei cittadini. Se questi si lasciano imbrogliare, il regime maggioritario può instaurare, come sapeva Tocqueville – la peggiore delle tirannie: quella che le maggioranze esercitano sulle minoranze.

Perciò una democrazia può essere reale, e non una facciata di cartone, solo se sono i cittadini – vale a dire noi – a vegliare sulle decisioni politiche, partecipando attivamente alla vita culturale e sociale.

Nell’immagine: The President’s House by George Munger, 1814-1815 The White House Historical Association, Public Domain.