Ma davvero il problema è il patriarcato? di Ettore Perrella
0. Motivi di un’esitazione
Una persona che mi chiede talvolta di “prendere posizione” su degli eventi di cronaca mi ha chiesto di recente di scrivere una nota sull’assassinio di Giulia Cecchettin e sul movimento di opinione che questo assassinio ha provocato non solo nei giornali, e nel Parlamento, ma anche fra le migliaia di persone che hanno manifestato il proprio dolore in tutta Italia.
Le ho risposto che non l’avrei fatto, non perché non avessi un’opinione – uno psicanalista, per il fatto stesso di credersi tale, deve averne una, su un femminicidio –, ma perché il livello di questo dibattito mi pareva del tutto sconfortante, e perché esprimere la mia non era affatto possibile solo nel breve spazio di un articoletto.
Ciò nonostante, mi esporrò al rischio di scrivere quello che penso, e di dire delle cose che potrebbero non essere affatto facilmente digeribili per chiunque, come lo sono invece le due formule che hanno catalizzato questo dibattito: il termine “patriarcato” ed il termine “educazione affettiva”.
1. Partecipare al lutto
La dolorosa vicenda di Giulia Cecchettin, massacrata, pochi giorni prima della laurea, da qualcuno che credeva d’amarla, Filippo Turetta, non ha colpito me meno degli altri milioni d’italiani, che hanno partecipato, negli ultimi giorni, all’enorme dibattito, che si sta svolgendo nei media, sulla presunta importanza, nella genesi dei femminicidi, dell’ideologia del patriarcato.
Certo, dalla vicenda di Giulia mi sono sentito coinvolto anche per motivi geografici, visto che Vigonovo, Torreglia o Fossò sono dei luoghi che fanno parte dell’hinterland della città in cui vivo e in cui Giulia ha studiato. Ma questa motivazione non basta a spiegare l’interesse degli altri milioni d’italiani che hanno partecipato, in modo autentico e sentito, a questo lutto. Perché questo caso ha suscitato un enorme interesse dei media, mentre i precedenti cento femminicidi avvenuti in quest’anno non lo hanno suscitato? Forse solo per banalissimi motivi collegati alle modalità con cui certe notizie diventano “virali” – come significativamente si dice – nelle cronache. Eppure vedere sfilare in televisione le foto di queste più di cento donne dà perfettamente l’idea d’un meccanismo atroce e perfettamente noto all’antropologia (ma non ai giornalisti), che è la funzione sociale dei sacrifici umani. Noi crediamo che questi rituali siano del tutto superati dal progresso, dimenticando così l’evidenza: in primo luogo del fatto che ogni guerra comporta dei sacrifici umani – oggi non meno che nella seconda guerra mondiale o nella guerra di Troia –; in secondo luogo del fatto che la nostra religione, il cristianesimo, consiste nel culto espiatorio del sacrificio del Cristo crocefisso: al quale sacrificio tutti i fedeli partecipano, la domenica, quando si nutrono, nella comunione, del suo corpo massacrato e risorto.
Si dirà: che c’entra Cristo con le più di cento donne uccise solo in Italia, quest’anno? C’entra, come con Cristo c’entrano i martiri – e soprattutto le martiri – che tanta importanza hanno sempre avuto nel culto cristiano. Alla fine catastrofica dell’Impero romano, Sant’Agostino reagì scrivendo il suo monumentale De Civitate Dei: un libro che è stato alla base della teologia politica dell’intero medioevo e che avrebbe molto da insegnare ancora oggi. Ora, Agostino ha scritto questo lungo libro partendo da una questione di cronaca (simile a quelle di cui si occupano oggi i giornali): che cosa avrebbe dovuto fare la Chiesa con le suore dei conventi romani che erano state stuprate dai barbari durante il sacco di Roma?
Come si vede, il problema del femminicidio, o dello stupro, che anche oggi viene praticato dagli eserciti (si ricordino le vicende della guerra civile jugoslava) è sempre legato costitutivamente alla genesi dello Stato. Quando i greci ebbero ragione di Troia, uccisero i maschi e ridussero in schiavitù le donne e i bambini: esattamente per lo stesso motivo per cui anche gli psicologi di oggi riservano il termine, in apparenza anodino, “violenza di genere” proprio alle donne e ai bambini (e ai bambini maschi non meno che alle femmine). Del resto, non possiamo dimenticare che la violenza sui minori ha costituito – anzi presumo che costituisca ancora – un problema per la stessa Chiesa: non in quanto erede della predicazione di quel rabbino irregolare che fu Gesù di Nazareth, ma in quanto struttura di potere.
Che legame c’è allora fra lo stupro e l’asservimento delle donne e la struttura giuridica dello Stato?
2. I sacrifici (in)umani
Cari lettori, vedete che il problema, così posto, non è affatto liquidabile con una breve formula. Naturalmente i sacrifici umani – anche nelle società che li praticavano quasi quotidianamente, come accadeva in America, prima che vi arrivassero gli spagnoli – non comportavano affatto che questi atti rituali non fossero considerati colpevoli. Uccidere Ifigenia non era meno colpevole per Agamennone di quanto la condanna di Cristo non lo fosse per il popolo che, alla domanda di Pilato – che, essendo romano, ne capiva qualcosa, sul diritto –, se non preferisse che fosse graziato, rispose “crocifiggilo”. E, guarda caso, quel popolo è lo stesso che per duemila anni è stato perseguitato, che è stato massacrato ad Auschwitz, e che in questi giorni sta cercando d’evitare che duecento ostaggi israeliani siano uccisi a Gaza, ma per fare questo sta uccidendo migliaia di palestinesi, la maggior parte dei quali sono donne e bambini, non meno innocenti degli ostaggi israeliani. Il fatto di chiamare questi massacri “effetti collaterali della guerra” non cambia la sostanza, perché si tratta pur sempre di sacrifici umani.
Ora, si dà il caso che non solo Cristo e San Pietro fossero ebrei, ma che lo fossero anche Marx, Einstein e Freud, al quale devo di potermi dire psicanalista (come due miliardi di persone devono a Cristo di potersi dire cristiani). Vedete che importanza planetaria ha avuto questo minuscolo popolo che ha inventato il monoteismo?
Cari lettori, vedete come le cose umane sembrano sempre complicate? E ci sono situazioni nelle quali tutti ci sentiamo al rischio della contraddizione. L’assassinio di Giulia – e delle altre migliaia di donne che vengono uccise ogni anno nel pianeta, perché non accettano d’essere schiave del desiderio d’un uomo – è una di queste situazioni.
Peccato che a questa complessità non si adeguino affatto le due formule che sono state proposte negli ultimi giorni, la prima per spiegarlo (la parola “patriarcato”), la seconda per evitare che queste uccisioni si ripetano (l’“educazione affettiva” che si vorrebbe aggiungere ai programmi scolastici). Consideriamo separatamente i due problemi.
3. Che cos’è il patriarcato
La parola “patriarcato” non ha molto a che vedere con il maschilismo ed il pregiudizio sessuale, perché, come la parola “monarchia”, è riferita ad un potere (del padre) che è stato, in alcuni periodi storici, un vero potere sovrano. Certo, in un remotissimo passato, c’è stato anche un potere matriarcale (ammesso che il matriarcato sia qualcosa di più che un mito ottocentesco alla Bachofen). Il patriarcato è comunque fondato su quella separazione delle classi matrimoniali sulla quale si è soffermato Lévi-Strauss nelle sue fondamentali ricerche antropologiche. La divisione dei sessi ha, con la sessualità, delle relazioni solo secondarie, fondandosi sull’assunzione simbolico-sociale (e quindi in definitiva politica e giuridica) d’una differenza naturale: quella fra gli uomini (destinati alla guerra) e le donne (destinate alla procreazione).
La differenza anatomica, che naturalmente non vale per l’homo sapiens più che per i cani o gli uccelli, nel momento in cui diviene supporto d’una funzione sociale e giuridica, cambia natura, passando da un piano di conformazione e di fisiologia corporea ad un piano di struttura del potere. Per questo il pater familias, nel diritto latino arcaico, è in realtà padrone delle donne e dei figli allo stesso modo in cui è padrone degli schiavi o delle vacche.
La struttura patriarcale, che già nella Roma classica era un remoto ricordo, è tornata ad essere centrale storicamente nel feudalesimo, e lo è rimasta nell’aristocrazia fino al secolo scorso.
Dal punto di vista della psicanalisi, la differenza naturale fra maschi e femmine diviene differenza simbolica fra chi ha il fallo, e quindi non lo è (i maschi), e chi non lo ha, e quindi lo è (le femmine). Per questo il possesso delle donne, per il pater familias, simbolicamente equivale al possesso del fallo.
In realtà, tutta la psicanalisi si regge sulla constatazione del fatto che il fallo, non essendo un oggetto reale, ma un simbolo, non si può mai possedere (“angoscia di castrazione”) e che ciò che la legge proibisce (l’incesto) è esattamente quello che pure si desidera.
Il desiderio e la sessualità sono sempre e necessariamente in contrasto con la legge, e questo è sempre stato vero, in tutte le società, oggi non meno che nelle società più arcaiche. Quel che ha aggiunto la modernità è solo la supposizione imbecille che i sessi si possano moltiplicare oltre il due. In realtà solo la sessualità non è mai numerabile, mentre i sessi, dal punto di vista giuridico, non potranno mai essere più di due (anche se fossero di più), perché è il 2 a inaugurare – in quanto primo numero pari – l’infinita serie delle divisioni: fra maschi e femmine, fra padroni e schiavi, fra cittadini e stranieri, e così via.
Naturalmente, nella storia degli ultimi due secoli, la struttura patriarcale si è molto indebolita, soprattutto da quando le donne hanno ottenuto il diritto sovrano d’essere considerate pari agli uomini. Tutti sappiamo che costituzionalmente, nelle democrazie, tutte le donne sono perfettamente pari agli uomini, nel godimento dei diritti politici e civili. E sappiamo pure che le donne non sono meno capaci degli uomini di svolgere qualsiasi lavoro. Ma in Italia le donne guadagnano sempre meno degli uomini. E questo è sicuramente un residuo del sistema patriarcale, nel quale le donne non lavoravano affatto. In realtà, che cosa significhi oggi per noi essere uomo o donna è un vero rebus per tutti. E di solito ciascuno risolve questo rebus con un proprio pregiudizio. Peccato che, come si sa, i pregiudizi non sono mai intelligenti.
Perciò se oggi le donne, indifferenti alla differenza anatomica, si credono in diritto di averlo (parliamo sempre del fallo), gli uomini sono più imbarazzati di loro quando s’accorgono che il fatto d’avere un pene non comporta di per sé nessun primato fallico.
A grandi linee – anche se le generalizzazioni in questo campo sono sempre pericolose, perché rischiano di divenire nuovi pregiudizi –, il problema della violenza di genere interviene di solito quando un maschio, che si accorge che avere un pene non basta ad avere anche un fallo, crede che basti avere una donna per assicurarsi d’avere quel fallo, che in realtà non potrà mai possedere nessuno. Un fallo, infatti, non fa parte dei beni che si possono vendere o comprare, perché non è una cosa, ma un significante della mancanza, come dice Lacan. E proprio su questo punto si verificano tutte le commedie umane della vita sessuale dei singoli. E qualche volta le commedie diventano tragedie, se non ci si accorge che la commedia è fatta per ridere e che il teatro è sempre una finzione.
Viene probabilmente da questa interpretazione fallica della donna il fatto che la perdita di lei venga interpretato da alcuni come una castrazione, che viene rifiutata negando alla donna ogni capacità di scelta (“se non sei mia, non esisti”). Proprio per questo i mariti che uccidono le mogli finiscono molto spesso per suicidarsi, dopo aver commesso il delitto. Non a caso dalla registrazione d’una telefonata risulta che Giulia temesse che Filippo si sarebbe suicidato se lei non avesse più sostenuta la finzione d’essere il fallo di lui, cosa che, beninteso, non era mai stata vera, se non nel delirio narcisistico della gelosia di chi credeva a torto d’amarla.
Ora, come si può mettere un po’ d’ordine sociale nella catastrofe simbolica, che si produce quando le donne sono finalmente uscite dal ruolo di schiave del sesso e della generazione, se gli uomini che pensano d’amarle credono che questi progressi siano ottenuti a spese loro?
Una risposta a questa domanda avevo provato a darla alcuni anni fa in un breve libro intitolato Il sesso non è il genere1. La risposta ha a che fare con l’educazione: occorrerebbe che gli esseri umani imparassero a distinguere il piano, necessariamente duale, del genere, grammaticale o sociale, dal piano del sesso e del desiderio, nelle sue infinite varianti, che sono sempre non legali, e quindi non duali. E proprio qui veniamo, finalmente, al secondo problema: quello della cosiddetta “educazione affettiva”.
4. L’educazione non avviene a scuola
Che sarebbe? Un’altra materia di studio nei programmi scolastici… Qui arriviamo al ridicolo, dalla tragedia delle donne assassinate. Solo che il ridicolo non è delle donne, ma degli opinionisti e dei politici.
Prima di tutto, il desiderio e l’amore sono cose affatto diverse, tanto che la “più comune degradazione della vita amorosa”, come diceva Freud, è proprio questa: che spesso gli uomini non riescono a desiderare le donne che amano, mentre desiderano solo quelle che disprezzano.
L’amore, senza dubbio, dipende sempre dall’educazione. In effetti nessuno s’immaginerebbe d’amare se non esistessero i romanzi d’amore, come ricordava Lacan.
Il fatto è che le scuole non educano, ma istruiscono. E l’amore o l’affetto non dipendono dall’istruzione, perché non dipendono dalle regole. Le regole si possono imparare, non gli atti. E la parola “educazione” si riferisce solo all’atto che trae fuori (educare è un durativo di ducere) nel giovane le capacità che sono già insite in lui e che non dipendono affatto dall’apprendimento di nessuna regola (anche se l’apprendimento delle regole può essere a propria volta educativo).
Se s’istituisse un insegnamento di “educazione affettiva”, questa nuova materia non sarebbe che una brutta copia dell’educazione civica: una materia che nessuno ha mai imparato a scuola, perché nessuno ha mai saputo nemmeno che cos’è.
In fondo, il vero problema del nostro tempo è proprio questo: tutti s’accorgono dei problemi etici ai quali si confrontano tutti gl’individui, quando devono agire, ma nessuno è in grado neppure di nominarli e riconoscerli. Per nominarli e riconoscerli occorre una “grande educazione”, come diceva Nietzsche. Magari, più modestamente, anche una piccola educazione. Ma nessuna educazione può mai ridursi all’apprendimento d’una regola. E quindi l’educazione non s’impara a scuola.
Tutti noi siamo oggi sempre più perseguitati dalle regole. E abbiamo sempre più bisogno d’una vera educazione, grande o piccola che sia. Ma non è nelle scuole che la potremo trovare, perché i primi educatori dei ragazzi sono sempre stati i genitori. L’educazione è sempre imparare ad amare, non a desiderare o ad avere. E purtroppo da duecento anni i genitori continuano a divenire degli educatori sempre più confusi e inconsapevoli, per esempio perché idealizzano i figli, o si ritengono colpevoli d’imporre loro delle regole. Come se l’amore consistesse nella trasgressione della legge.
Otello non avrebbe ucciso Desdemona, se non l’avesse amata. Ma il fatto d’averla uccisa non dimostra certo che sapesse amarla.
1 Ipoc, Milano 2016.
nella foto: “Othello” di Orson Welles (1951)