Perché Israele non è una terra santa di Ettore Perrella
Mi è stato chiesto perché non partecipavo al dibattito che si sta svolgendo negli ultimi giorni, nei media, sulla nuova crisi che insanguina il medio oriente.
Mi esprimo volentieri sull’argomento, anche se quello che avevo già scritto in un libro dedicato al razzismo e all’antisemitismo, ed ora incluso nei tre volumi sulla Sovranità pubblicati da Polimnia, era già prendere una posizione su dei fatti dolorosi, di cui le cronache si sono accorte solo negli ultimi giorni, perché i giornali hanno bisogno del sangue degli innocenti per svegliarsi.
Naturalmente ne penso il peggio del peggio: sia perché nulla giustifica mai il terrorismo, peggio ancora se truccato nei poco probabili panni dell’estremismo religioso; sia perché avevo già spiegato come lo Stato d’Israele si sia sempre configurato come una contraddizione, essendo uno stato laico e democratico per un verso, ma fondato, per un altro, su una tradizione religiosa che di per sé resta più confessionale che etnica. Proprio questa contraddizione è esplosa di recente, in Israele, nella contrapposizione fra la destra del governo Netanyahu e le contestazioni dei democratici. Con la novità che questa contrapposizione sembra aver indebolito per la prima volta anche i servizi segreti e la difesa, rendendo possibile il sacrificio delle centinaia di giovani e persino di bambini che sono stati squartati dai terroristi di Hamas.
Purtroppo gli israeliani, per difendere il loro stato, circondato da una schiacciante maggioranza musulmana, che rischia di diventare maggioranza anche all’interno – cosa che significherebbe la fine d’Israele –, non è mai stato troppo cortese con i palestinesi, che sono stati in effetti reclusi in quel campo di concentramento che è divenuto il loro territorio superstite, sia in Cisgiordania, sia a Gaza.
Assistiamo così al paradosso per cui il popolo più perseguitato della storia è divenuto il persecutore d’un popolo che, come quello palestinese, non era colpevole di nulla, se non della “colpa d’essere nati”, come dice Liliana Segre a proposito degli ebrei.
Freud non era sionista, perché aveva perfettamente previsto quello che sta succedendo dal 1948 in Palestina. Ma Freud non era stato abbastanza pessimista per prevedere che l’antisemitismo tedesco avrebbe portato allo sterminio di milioni di ebrei.
Alla fine della seconda guerra mondiale, gli ebrei che non sono emigrati negli Stati Uniti sono confluiti in massa nella Palestina, che allora era ancora un protettorato britannico. Ne è nato lo Stato d’Israele, in seguito ad una votazione delle Nazioni Unite. Ma il fatto che gli ebrei siano altrettanto numerosi negli Stati Uniti che in Israele dimostra che la creazione dello Stato d’Israele non è una soluzione del problema posto da questo popolo, nell’attuale configurazione pseudonazionale della sovranità. Israele non è riuscito ad essere uno stato nazionale che alla condizione d’escludere i palestinesi dal diritto d’essere cittadini d’uno stato, all’esterno dei confini riconosciuti dall’ONU ad Israele.
Non è sorprendente nemmeno che l’unica soluzione razionale del problema posto da settant’anni dalla Palestina fosse quella adottata dall’unico Stato interamente religioso oggi esistente sul pianeta, cioè dal Vaticano: rendere internazionale Gerusalemme, perché è la patria di tutte e tre le religioni monoteistiche.
In realtà l’intera Palestina dovrebbe essere un santuario internazionale, in cui ebrei, cristiani e musulmani dovrebbero avere tutti diritto di cittadinanza, a pari grado. In fondo la Gerusalemme terrena è sempre stata un’immagine della Gerusalemme celeste. Ma questo, naturalmente, è assolutamente incompatibile con l’esistenza d’uno Stato ebraico.
Purtroppo, nel campo della politica, le idee attecchiscono solo quando provocano milioni di morti. In Israele questo non è ancora successo. E tutti speriamo che non succeda mai. Ma l’aggressione da parte d’Israele a Gaza, dove vivono reclusi più di due milioni di persone, per poter smontare Hamas – come se questa organizzazione jihadista, sostenuta dall’Iran, coincidesse con i due milioni e passa di palestinesi che vi abitano –, fa temere il peggio.
Noi occidentali, invece di accapigliarci fra sostenitori dei palestinesi e degl’israeliani, dovremmo pretendere che il destino d’Israele non dipenda dalle maggioranze, cioè che in Palestina gli ebrei non contassero di più dei cristiani e dei musulmani: soluzione del tutto utopistica, che potrebbe essere garantita solo da un’ONU dotata d’un esercito, vale a dire da una possibilità ancora più utopistica di quella che dovrebbe garantire.
Certo, basterebbe che Israele riconoscesse l’esistenza d’uno Stato palestinese, per sbrogliare il problema. Ma uno Stato palestinese sarebbe poi all’interno dei confini d’Israele. E gli ebrei che vivono negli Stati Uniti – come il Segretario di Stato – non consentirebbero mai al loro governo di farsi supporto di questa costrizione.
Come si vede, ancora una volta il popolo conta di più dello Stato. E, mentre gli Stati non si riconoscono, i popoli muoiono.
Non sappiamo che cosa avverrà a Gaza nei prossimi giorni. L’unica cosa sicura è che, dopo il covid e la crisi in Ucraina, l’attuale crisi del medio oriente è divenuta una terza crepa della globalizzazione.
L’unica cosa che possiamo sperare tutti concordemente è che la fine dell’impero mondiale made in USA si fermi alla terza guerra mondiale a spizzichi e bocconi alla quale stiamo assistendo da vent’anni, e non porti ad una sfida nucleare. È anche per questo che dovremmo fare l’impossibile perché “Sansone non muoia con tutti i filistei” (i quali, guarda caso, vivevano proprio nella zona di Gaza).
Purtroppo, invece, i filistei, oggi, siamo noi. E gl’israeliani fedeli ad una Torah, che non è mai stata una costituzione democratica, finiscono oggi per fare il tifo per i loro nemici, e non per David.
nella foto: mappa di Gerusalemme (XII sec.)